La querelle decisa dalla Corte Suprema di Cassazione (Sezione I Civile, Sentenza 26/01/2018, n. 2039) vedeva contrapposti, in tema di plagio e violazione dei diritti di utilizzazione economica, da una parte la Società Arte Moderna F.lli Orler Eredi Ermano Orler e dall’altra la Fondazione Emilio e Annabianca Vedova.
Il Codice dei Beni Culturali (D. Lgs. n. 42/2004, art. 64) pone a carico di chi esercita l’attività di vendita al pubblico o di intermediazione nella vendita di opere d’arte l’obbligo di consegnare all’acquirente la documentazione che ne attesti l’autenticità e la provenienza o, in mancanza, una dichiarazione recante tutte le informazioni disponibili sull’autenticità o sulla probabile attribuzione e provenienza.
I Giudici di legittimità hanno statuito nel senso di ritenere che in tema di accertamento del plagio delle opere d’arte figurativa, anche moderna, il giudice deve procedere ai seguenti accertamenti: a) l’opera originale deve presentare i caratteri dell’originalità creativa, sia pur minima, fermo che la tutela non è riconosciuta all’idea in sé, ma alla sua forma espressiva, attraverso cui si estrinseca il contenuto del prodotto intellettuale; b) il giudizio si fonda su una valutazione complessiva e sintetica, non analitica, delle opere in confronto, incentrata sull’esame comparativo degli elementi essenziali delle opere medesime, attraverso il riscontro delle eventuali difformità, dovendosi valutare il risultato globale, o l’effetto unitario; c) il plagio va escluso allorché le due opere, pur prendendo spunto dalla stessa idea ispiratrice, si differenzino negli elementi essenziali, che ne caratterizzano la forma espressiva; d) di contro il plagio sussiste allorché, dal confronto, emerge che non vi è scarto semantico, idoneo a conferire alla seconda un diverso e proprio significato artistico, in quanto dalla prima essa ha mutuato il c.d. nucleo individualizzante o creativo, ricalcandone gli elementi creativi, non essendo invece sufficienti elementi originali di mero dettaglio rispetto a quelli dell’originale (nella specie, la Suprema corte ha confermato la sentenza di merito che, alla stregua di tali principî ed in conformità ad una c.t.u., aveva accertato che taluni dipinti, commercializzati mediante televendita, costituissero plagio di opere di Emilio Vedova, presentando la stessa tecnica, nonché identità della posizione di piani, delle masse cromatiche, delle proporzioni, mentre le minime differenze erano riferibili non ad una rielaborazione creativa, ma ad esigenze commerciali, ad es. le dimensioni ridotte, e di semplificazione).
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Svolgimento del processo
Il Tribunale di Milano ha accertato, su domanda della Fondazione E. ed A.V., che i dipinti di d.L.P., promossi e venduti dalla Galleria d’arte O. mediante una mostra-mercato tenutasi a (OMISSIS) nei mesi di marzo ed aprile 2007 e, soprattutto, nel corso di televendite, costituiscono plagio dei dipinti di V.E., dai primi volta a volta riprodotti, con violazione dei diritti spettanti alla Fondazione E. e A.V., erede universale dell’artista.
Il giudice di primo grado ha, quindi, inibito la prosecuzione dell’illecito, ordinato la distruzione dei materiali promozionali e pubblicitari relativi, comminato la penale di Euro 1.000,00 per ogni violazione ulteriore e per ogni giorno di ritardo nell’esecuzione e condannato in solido d.L.P. ed Arte Moderna F.lli O. Eredi E.O. s.n.c. al risarcimento dei danni in favore della Fondazione, liquidati in Euro 300.000,00, di cui Euro 200.000,00 per danno patrimoniale ed Euro 100.000,00 per danno non patrimoniale, ivi compresi gli interessi maturati, nonchè condannato in solido d.L.P. e la Casa delle Aste Meeting Art s.p.a. al risarcimento dei danni in favore della Fondazione, liquidati in Euro 5.000,00, ivi compresi gli interessi maturati, con riguardo alla pubblicazione su catalogo dell’opera di d.L. denominata (OMISSIS), plagio del dipinto di V. denominato (OMISSIS).
La Corte d’appello di Milano, adita dai soccombenti, con sentenza del 28 aprile 2015 ha respinto le impugnazioni.
La corte territoriale ha ritenuto, per quanto ancora rileva, che:
a) è ammissibile l’appello incidentale, proposto da Arte Moderna F.lli O. Eredi E.O. s.n.c., così qualificato quello denominato principale, ma notificato in data successiva all’impugnazione della Casa delle Aste Meeting Art s.p.a., ed inammissibile l’appello incidentale del d.L., proposto oltre il termine di decadenza di cui all’art. 343 c.p.c., mentre la declaratoria di inammissibilità del di lui appello principale, operata con ordinanza del 28 ottobre 2013, è passata in giudicato;
b) sussiste l’illecito di plagio delle opere dell’artista V.E., posto che la protezione del diritto d’autore non riguarda l’idea creativa come tale, ma la forma espressiva che la veicola all’esterno rendendola percepibile agli altri, avendo ogni artista, pur appartenente alla stessa corrente e condividendo con altri una certa sensibilità artistica, una riconoscibile impronta ed apporto creativo sotto il profilo dell’impegno estetico, compiutezza espressiva o scarto semantico rispetto ad opere anteriori altrui, avuto riguardo all’opera nel suo insieme, senza che assumano rilievo le consonanze o dissonanze di dettaglio, il pregio artistico o il valore economico delle opere: dunque, alla stregua della disposta consulenza tecnica d’ufficio e dell’esame delle opere, il plagio è ravvisabile sia nel lavoro (OMISSIS), di cui la corte del merito ha ritenuto la “sostanziale sovrapposizione” con quello di V. alla mera vista comparativa dei dipinti (svolti entrambi su due piani, con le medesime masse cromatiche a campitura rossa e gialla ed uguale localizzazione dei colori), mentre l’esame di dettaglio rivela piuttosto lo svilimento delle forme del messaggio artistico (dimensione ridotta, più commerciabile, uso della spatola invece del pennello), sia nei cd. dischi, che si servono della medesima tecnica con imitazione dei moduli stilistici (stessi chiaro-scuri, forma, collocazione, tecnica e supporto dell’opera), senza nessun significato artistico diverso, anzi svilendo il messaggio per lo spettatore, posto che solo quelli di V.E. corrispondono nel diametro all’apertura delle braccia dell’artista;
c) la responsabilità di Arte Moderna F.lli O. Eredi E.O. s.n.c. sussiste, avendo concorso alla promozione, diffusione e vendita di tutte le centinaia di opere a firma d.L., che costituiscono sistematica appropriazione del frutto della altrui elaborazione artistica, con apporto causale particolarmente intenso, in ragione dell’utilizzo della televendita: dovendo reputarsi responsabile dell’illecito civile di plagio artistico non solo chi realizza l’opera, ma anche chiunque intervenga nella commercializzazione di essa, rientrando nel dovere di diligenza qualificata, di cui all’art. 1176 c.c., gravante sugli operatori esperti nel mercato dell’arte, la verifica che le opere poste in vendita non si palesino plagiarie; tenuto conto, in particolare, che nella specie sussiste notorietà dello stile artistico di V.E., del suo tratto originale e riconoscibile entro l’arte cd. astratta informale;
d) contrariamente all’assunto dell’appellante, secondo cui non è provato che l’attività del d.L. abbia prodotto una svalutazione delle opere di V. considerata la diversità di mercati e la rinomanza degli artisti, il tribunale ha correttamente applicato, nella liquidazione del danno patrimoniale, la L. 22 aprile 1941, n. 633, art. 158, comma 2, il quale permette la liquidazione del danno da lucro cessante tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto, ossia il criterio della cd. retroversione degli utili, in tal modo innovando, come per l’art. 125 c.p.i., al tradizionale sistema con l’aggiunta della sanzione punitiva a quella restitutoria, onde la condanna relativa non è condizionata alla prova dell’esistenza di un danno risarcibile, ma al conseguimento degli utili causalmente collegati alla violazione commessa; il Tribunale ha, pertanto, correttamente calcolato il quantum del risarcimento sulla base degli utili realizzati, quantificando il danno da lucro cessante ai sensi dell’art. 2056 c.c., comma 2, con equo apprezzamento delle circostanze concrete, quali il numero delle 108 opere plagiarie messe in vendita ed il loro prezzo medio, correttamente quantificando gli utili nell’importo pari ad un terzo dei guadagni complessivi, attesi i costi ipotizzabili;
e) contrariamente all’assunto dell’appellante, secondo cui la Fondazione non sarebbe stata legittimata ad agire per la tutela dei diritti morali di V.E., intrasmissibili mortis causa ed a persona giuridica, anche il danno non patrimoniale è stato correttamente riconosciuto, posto che la Fondazione ha patito un pregiudizio per la diffusione sul mercato di opere, in cui un terzo si è appropriato del frutto dell’ingegno artistico del V., con un danno alla propria immagine, quale soggetto preposto a custodire l’opera del medesimo ed a diffonderne la corretta conoscenza.
Avverso questa sentenza viene proposto ricorso per cassazione da Arte Moderna F.lli O. Eredi E.O. s.n.c., sulla base di cinque motivi. Resiste con controricorso l’intimata Fondazione, che propone ricorso incidentale condizionato per due motivi.
Le parti hanno depositato altresì la memoria di cui all’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. – Il ricorso principale propone cinque motivi d’impugnazione, che possono essere come di seguito riassunti:
1) violazione e falsa applicazione della L. n. 633 del 1941, artt. 12, 18, 20, 23, 107 e 158 oltre ad omesso esame di fatto decisivo, per avere la corte del merito omesso ogni valutazione circa la legittimazione attiva in capo alla Fondazione V., confermando la pronuncia del tribunale che ha ad essa attribuito il risarcimento del danno non patrimoniale, quale erede di V.E., laddove l’art. 23 cit. riserva a soggetti tassativamente indicati l’esercizio del diritto morale d’autore; mentre, quanto al danno patrimoniale, esso sarebbe spettato alla Fondazione solo ove ne fosse stata proprietaria, oppure ad essa i diritti fossero stati trasmessi dall’autore che li avesse mantenuti pur dopo la cessione del corpus mechanicum, punto su cui invece la corte territoriale nulla ha detto;
2) violazione e falsa applicazione della L. n. 633 del 1941, artt. 1, 2 e 156 per avere la corte del merito ritenuto che l’imitazione dello stile possa costituire “plagio” di opera pittorica astratta, laddove tale termine va invece riservato all’usurpazione della paternità di un’opera e la corte ha fondato il suo convincimento sopra elementi generici, come chiaro-scuri, forma, collocazione dei segni, tecnica e supporto: ma l’imitazione dello stile di un artista è libera, posto che ognuno si ispira, più o meno dichiaratamente, a modelli precedenti e che oggetto del diritto d’autore non è il contenuto ideologico dell’opera, come codificato all’art. 9.2 dell’Accordo TRIPs (The Agreement on Trade Related Aspects of Intellectual Property Rights), nè lo sono pensieri ed emozioni di chi guarda i dipinti, ma unicamente la forma specifica assunta dall’idea in concreto, in quanto si sia tradotta in una res; ciò tanto più per la corrente artistica della cd. arte informale, dove l’idea si sostanzia in macchie e colori, senza nessuna rappresentazione della realtà, dovendo quindi farsi ricorso a parametri diversi circa il concetto di imitazione, con difficoltà potendosi qui applicare la tradizionale dicotomia tra la non proteggibile idea e la sua tutelabile espressione esterna, nonchè il concetto di forma interna, inapplicabile all’arte astratta, ove forma e contenuto sono inscindibili; mentre poi non può guardarsi alla complessiva impressione suscitata dalle opere, ma si richiede una loro valutazione analitica;
3) violazione e falsa applicazione degli artt. 2055 e 2056 c.c., L. n. 633 del 1941, artt. 156 e 158, D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 64 per avere la corte d’appello ravvisato la responsabilità concorrente della galleria d’arte sulla base della mera contraffazione, affermando l’obbligo della stessa di verificare che le opere poste in vendita non integrino violazione dei diritti altrui, dunque con imputazione di una responsabilità sostanzialmente oggettiva, anche attesa l’opinabilità della materia, nonchè sostenendo che il d.L. avrebbe dovuto produrre quadri almeno dello stesso valore delle opere di V. per non essere reputato un plagiario;
4) violazione e falsa applicazione della L. n. 633 del 1941, art. 158 oltre ad omesso esame di fatto decisivo, in quanto il danno patrimoniale è stato liquidato col criterio della retroversione degli utili, affermando la corte del merito che ne potesse anche mancare ogni prova, e per una serie indefinita di quadri, senza verificare il plagio di ognuno di essi, e non avendo la sentenza impugnata tenuto conto del fatto che, mentre le opere di V. valgono centinaia di migliaia di Euro, quelle del d.L. sono valutate ciascuna al massimo Euro 9.000,00, onde sono inidonee a scalfirne il prestigio ed il valore;
5) violazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 183 c.p.c., comma 6, con nullità della sentenza, per avere la corte d’appello ritenuto che, sebbene l’atto di citazione in primo grado avesse richiesto il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali per la violazione dei diritti di esclusiva, la domanda di risarcimento per la violazione dei “diritti all’identità morale e patrimoniale della Fondazione”, proposta in primo grado solo nella memoria ex art. 183 c.p.c., fosse stata correttamente reputata dal tribunale una mera precisazione ammessa della domanda di accertamento della violazione dei diritti di esclusiva sui quadri di V.E., ed avendo la corte d’appello ritenuto infondata l’impugnazione, in quanto la Fondazione avrebbe subito un danno all’immagine, quale danno non patrimoniale.
Il ricorso incidentale condizionato reca due motivi, ovvero:
1^) violazione o falsa applicazione degli artt. 333 e 343 c.c., con nullità della sentenza, per avere la corte d’appello ritenuto che l’impugnazione principale proposta da O. potesse qualificarsi come impugnazione incidentale ammissibile;
2^) violazione degli artt. 112 e 326 c.p.c., con nullità della sentenza, per omessa pronuncia sull’eccezione di tardività dell’appello di O..
2. – Il primo ed il quinto motivo del ricorso principale, che, in quanto connessi, possono essere congiuntamente trattati, sono in parte inammissibili ed in parte infondati.
2.1. – Inammissibile, per difetto di autosufficienza, è la deduzione secondo cui il credito risarcitorio per violazione del diritto patrimoniale d’autore spetterebbe alla Fondazione a condizione che la medesima fosse la proprietaria delle opere, oppure ad essa fossero stati trasmessi i diritti dall’artista sul corpus mysticum, quale bene intellettuale immateriale, che li avesse mantenuti pur dopo la cessione del corpus mechanicum, vale a dire la cosa in cui è incorporata l’opera e che la rende fruibile.
Prima di ogni altra considerazione, invero, il mancato riferimento della sentenza impugnata a tale deduzione, nonchè l’omessa indicazione, in questa sede, del luogo e del tempo della anteriore prospettazione, conducono alla declaratoria della sua inammissibilità, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, (e multis, Cass. 15 giugno 2016, n. 12288; 15 luglio 2015, n. 14784), non senza doversi rilevare come sul punto, che non risulta essere stato prospettato adeguatamente al giudice del gravame, si sarebbe poi formato il giudicato interno.
2.2. – Quanto al danno non patrimoniale, va anzitutto disattesa la tesi della presunta mutatio libelli, allorchè l’attrice in primo grado, che aveva in citazione richiesto il risarcimento dei “danni patrimoniali” e “non patrimoniali” patiti, provvide a precisare nella memoria di cui all’art. 183 c.p.c. trattarsi, quanto ai secondi, della lesione non al diritto morale del pittore L. n. 633 del 1941, ex art. 20 ma del diritto spettante a titolo originario alla Fondazione e, precisamente, del diritto alla propria identità personale ed alla “immagine”, quale ente collettivo, per statuto preposto alla protezione e promozione della figura, della memoria e dell’opera di V.E..
E’ noto, infatti, che la persona giuridica e l’ente collettivo in genere ha titolo al risarcimento del danno non patrimoniale qualora l’altrui condotta ne leda i diritti della personalità, compatibili con l’assenza di fisicità e costituzionalmente protetti, che identificano il soggetto dell’ordinamento o ne individuano la dimensione nel contesto sociale, quali sono i diritti alla reputazione e all’identità, determinando una diminuzione della considerazione e della stima di cui il soggetto gode nell’ambito sociale ed economico di appartenenza (cfr., e multis, Cass. 1 ottobre 2013, n. 22396; 22 marzo 2012, n. 4542; 9 maggio 2011, n. 10125; 4 giugno 2007, n. 12929). Dunque, se la tutela dell’opera di un artista costituisce il compito istituzionale di una fondazione, ciò non può non estendersi all’azione giudiziale a salvaguardia di essa.
La corte del merito ha ritenuto la Fondazione legittimata attiva all’azione di risarcimento, in particolare, del danno non patrimoniale fatto valere, posto che essa non ha esercitato il diritto morale d’autore, di cui alla L. n. 633 del 1941, artt. 20 e 23 ma un autonomo diritto “alla propria immagine”, quale soggetto preposto a custodire l’opera del medesimo ed a diffonderne la corretta conoscenza.
Se la seconda qualificazione va stigmatizzata, non propriamente di “immagine” trattandosi, ma di reputazione in un contesto sociale, resta fermo tuttavia che nessuna inammissibile mutatio libelli sussiste e che dunque la decisione impugnata si sottrae alla censura proposta.
3. – Il secondo motivo è infondato, sotto tutti i profili che esso propone.
3.1. – In primo luogo, correttamente la corte del merito ha discorso di plagio, con tale termine la L. n. 633 del 1941, art. 171 definendo il fatto di chi “senza averne diritto, a qualsiasi scopo e in qualsiasi forma, a) riproduce… un’opera altrui”.
Il plagio, dunque, si realizza con l’attività di riproduzione – si parla perciò di “appropriazione” – totale o parziale degli elementi creativi di un’opera altrui, così da ricalcare in modo “parassitario” quanto da altri ideato e quindi espresso in una forma determinata e identificabile.
3.2. – In secondo luogo, giova osservare come, secondo le elaborazioni degli interpreti, siano stati ormai in modo alquanto consolidato chiariti alcuni principi, che devono guidare il giudizio di fatto di comparazione tra le opere, per giungere ad una valutazione positiva o negativa di plagio.
Anzitutto, trattandosi appunto di porre a raffronto due opere, alcune caratteri sono stati fissati per l’una come per l’altra.
L’opera plagiata, da un lato, deve presentare i caratteri della originalità creativa riconoscibile, sebbene, come questa Corte ha già ritenuto, il concetto giuridico di creatività, cui fa riferimento la L. n. 633 del 1941, art. 1 non coincida con quello di creazione, originalità e novità assoluta, riferendosi, per converso, alla personale e individuale espressione di un’oggettività appartenente alle categorie elencate, in via esemplificativa, nell’art. 1 legge citata, di modo che un’opera dell’ingegno riceva protezione a condizione che sia riscontrabile in essa un atto creativo, seppur minimo (Cass. 28 novembre 2011, n. 25173; 12 marzo 2004, n. 5089).
Inoltre, non si tutela l’idea in sè, ma la forma della sua espressione, ovvero dalla sua soggettività, di modo che la stessa idea può essere alla base di diverse opere che sono o possono essere diverse per la creatività soggettiva che ciascuno degli autori spende e che, in quanto tale, rileva ai fini della protezione (Cass. 28 novembre 2011, n. 25173, citata).
Non si parla, dunque, di plagio con riguardo all’idea su cui l’opera si fonda, non proteggendo la disciplina sul diritto d’autore l’idea in sè (ottenibile anche fortuitamente, come autonomo risultato dell’attività intellettuale di soggetti diversi e indipendenti), trovando invece esso il presupposto nell’identità di “espressione”, intesa come forma attraverso la quale si estrinseca il contenuto del prodotto intellettuale, meritevole di tutela allorchè rivesta il carattere dell’originalità e della personalità: le idee per se stesse non ricevono protezione nel nostro ordinamento, ma è necessario che sia identico il modo in cui sono realizzate e cioè la forma esterna di rappresentazione.
Per quanto riguarda l’opera plagiaria, dall’altro lato, secondo criteri giocoforza più complessi, si ritiene che:
– perchè essa sia tale deve, in sintesi, essere priva di un cd. scarto semantico, idoneo a conferirle rispetto all’altra un proprio e diverso significato artistico, in quanto abbia dall’opera plagiata mutuato il cd. nucleo individualizzante o creativo (cfr. Cass. 19 febbraio 2015, n. 3340); in sostanza, è necessario che l’autore del plagio si sia appropriato degli elementi creativi dell’opera altrui, ricalcando in modo pedissequo quanto da altri ideato ed espresso in forma determinata e identificabile; al contrario, è esclusa la sussistenza del plagio, allorchè la nuova opera si fondi sì sulla stessa idea ispiratrice, ma si differenzi negli elementi essenziali che ne caratterizzano la forma espressiva;
– la verifica va operata sulla base del riscontro delle difformità dalle caratteristiche essenziali, mentre non sono sufficienti originalità di mero dettaglio dell’opera plagiaria (Cass. 15 giugno 2012, n. 9854; 28 novembre 2011, n. 25173; 27 ottobre 2005, n. 20925; 10 marzo 1994, n. 2345; 10 maggio 1993, n. 5346): dunque, non sussiste il plagio qualora due opere, pur avendo in comune il cd. spunto o motivo ispiratore, differiscano quanto agli ulteriori elementi caratterizzanti ed essenziali, permanendo viceversa il plagio anche quando esso sia “camuffato” (o “mascherato”) mediante varianti solo apparenti;
– non rileva in sè la confondibilità tra due opere, alla stregua del giudizio d’impressione utilizzato in tema di segni distintivi dell’impresa, ma la riproduzione illecita di un’opera da parte dell’altra (Cass. 15 giugno 2012, n. 9854; 27 ottobre 2005, n. 20925);
– il giudizio deve seguire una valutazione complessiva e sintetica, non analitica, incentrata sull’esame comparativo degli elementi essenziali delle opere da confrontare, dovendosi cioè valutare il risultato globale o l’effetto unitario;
– si tratta di giudizio di fatto insindacabile in sede di legittimità (Cass. 27 ottobre 2005, n. 20925): il giudizio relativo ad opere d’arte contemporanea, quali quelle per cui è causa, caratterizzate dall’impiego di materiali, forme, concezioni relativamente agevoli da riprodurre, viene svolto di regola mediante espletamento di una consulenza tecnica, dal giudice fatta propria; in ogni caso, la riproposizione, in sede di legittimità, delle valutazioni e degli apprezzamenti di merito è inammissibile (cfr. Cass. 26 maggio 2016, n. 10937, in motivazione).
Ciò posto, la sentenza impugnata si sottrae a tutte le critiche avanzate.
Rispetto alle opere plagiate, essa ha applicato i principi predetti, avendo offerto tutela non al contenuto dell’idea come tale, ma proprio alla sua espressione concreta. La corte d’appello ha ritenuto necessaria all’ipotesi di plagio l’identità di essenza rappresentativa tra le opere, premettendo proprio che il plagio resterebbe escluso nel caso di spunto comune tratto dal patrimonio di pensiero e di idee proprio di tutti, di cui nessuno può rivendicare la paternità, e sia nel caso di disuguaglianza di risultato espressivo.
Nè può predicarsi un diverso e più ampio criterio, come il ricorso richiederebbe, con riguardo alla corrente artistica della cd. arte informale, secondo la O. qualificabile radicalmente come “non-arte” o “arte antiformale”: concordi o no che siano gli esperti del settore con tali ulteriori definizioni, non si potrebbe non convenire nel senso che, pur quando l’idea artistica si esprima e si concreti mediante linee, segni o aree di macchie o colori, non immediatamente riproduttive di nessuna forma del reale così come questo risulterebbe da una fotografia, ma piuttosto trasfigurandolo ed interpretandolo in maniera affatto originale, resta che proprio la potenza di questa personalissima interpretazione e trasfigurazione va giuridicamente tutelata.
Parimenti, per quanto attiene alle opere plagiarie, la corte territoriale, sia sulla base della consulenza tecnica d’ufficio espletata in primo grado, sia dall’esame diretto dei documenti in atti, ha ravvisato l’esistenza del plagio: ciò, quanto all’opera (OMISSIS), per essere la medesima “quasi del tutto sovrapponibile” al (OMISSIS), con ampia descrizione delle identità di posizione dei piani, masse cromatiche, proporzioni, aggiungendo che le minime diversità riscontrate, fuor che costituire segno di rielaborazione creativa, appaiono semplificanti o commerciali (come le minori dimensioni); quanto ai cd. dischi, la tecnica è la medesima, con ripetizione dei moduli stilistici privi di significato artistico diverso.
In tal modo, la corte del merito si è pienamente attenuta ai su esposti principi, focalizzandosi sulle caratteristiche essenziali delle opere ed operandone una valutazione complessiva, pur dopo l’analisi del dettaglio, ed, infine, evidenziandone elementi tutt’affatto che generici, anzi precisi e significativi, proprio per il tipo di corrente artistica imitata.
4. – Il terzo motivo è infondato.
La corte del merito ha applicato il condivisibile principio secondo cui, in ipotesi di violazione dei diritti morali e patrimoniali d’autore, sono solidalmente responsabili tra loro tutti i soggetti che hanno dato un contributo rilevante all’illecito, ai sensi dell’art. 2055 c.c., ivi compreso, dunque, oltre all’autore materiale del plagio, anche il soggetto che abbia commercializzato le opere nell’ambito della propria attività imprenditoriale: nella specie, la galleria d’arte, che le abbia esposte e vendute, sia in via diretta, sia mediante il veicolo della cd. televendita.
Ha aggiunto la corte del merito che proprio quest’ultimo strumento palesava una particolare idoneità lesiva, attesa la diffusione che permette nella distribuzione dell’opera plagiaria.
Accertata, dunque, l’esistenza oggettiva del plagio, in ragione dell’appropriazione degli elementi essenziali dell’altrui opera pittorica e creativa, in presenza di determinanti ed indubbi elementi di identità, non è viziata da errore di diritto la deduzione circa il concorso nella produzione del danno da parte del gallerista, quanto meno a titolo di colpa, dovendo egli rispondere in solido con l’autore delle opere plagiarie, per la violazione del dovere fondamentale di diligenza qualificata, di cui all’art. 1176 c.c., con il conseguente obbligo del risarcimento del danno cagionato.
Tutt’altro, dunque, che un’imputazione non consentita di responsabilità oggettiva, ma accertamento compiuto di una responsabilità colpevole per l’inadempimento ai doveri di diligenza gravanti sul gallerista d’arte, in ragione della natura dell’attività esercitata.
Questa Corte ha già ritenuto, in diversa fattispecie, che la buona fede del venditore di un’opera d’arte erroneamente attribuita ad un autore determinato non ne esclude, di per sè, la colpa, e la conseguente responsabilità per l’inadempimento, se non sia in concreto provato, ai sensi dell’art. 1218 c.c., che l’errore avrebbe potuto essere evitato con l’ordinaria diligenza di cui all’art. 1176 c.c. (Cass. 3 luglio 1993, n. 7299).
Pur trattandosi, nella specie, di responsabilità aquiliana e non contrattuale, dunque senza inversione dell’onere della prova in ordine all’elemento soggettivo della fattispecie, il concorso colposo del gallerista è stato correttamente individuato nel non avere egli rilevato, con la specifica diligenza professionale, la palese imitazione delle opere di V..
Occorre, al riguardo, ricordare, per la corretta ricostruzione del sistema, che il D.Lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, art. 64 Codice dei beni culturali e del paesaggio, pone a carico di chi esercita l’attività di vendita al pubblico, di esposizione a fini di commercio o di intermediazione finalizzata alla vendita di opere (fra l’altro) di pittura l’obbligo di consegnare all’acquirente gli attestati di autenticità e di provenienza, o, in mancanza, una dichiarazione recante tutte le informazioni disponibili al riguardo. Tale previsione vale tanto più ad evidenziare la particolare professionalità e serietà che si richiede a chi svolge una simile attività, con la correlata fiducia in essi riposta.
Nè la corte d’appello ha mai affermato, contrariamente all’assunto della ricorrente, la quale al riguardo non coglie l’esatta ratio decidendi della decisione impugnata, che per escludere il plagio le opere plagiarie avrebbero dovuto almeno valere sul mercato quanto quelle plagiate: con conseguente inammissibilità della censura.
5. – Il quarto motivo è infondato.
La corte del merito ha fatto applicazione del principio secondo cui, a norma della L. n. 633 del 1941, art. 158 la quantificazione del danno subito dal titolare del diritto di utilizzazione economica di un’opera, di cui sia rimasto accertato il plagio, avviene da parte del giudice facendo uso del “potere-dovere di commisurarlo, nell’apprezzamento delle circostanze del caso concreto, al beneficio tratto dall’attività vietata, che assurge ad utile criterio di riferimento del lucro cessante, segnatamente quando esso sia correlato al profitto del danneggiante, nel senso che questi abbia sfruttato a proprio favore occasioni di guadagno di pertinenza del danneggiato, sottraendole al medesimo” (Cass. 29 maggio 2015, n. 11225).
Essa ha altresì precisato che si trattò di liquidazione del danno patrimoniale secondo criteri equitativi, sulla base appunto della considerazione del vantaggio conseguito dagli autori dell’illecito.
Del resto, proprio quando, come nella specie, tra prodotto originale e prodotto plagiario sussista una notevole differenza di prezzo, tale da non consentire di ritenere con necessaria certezza che il numero di prodotti venduti corrisponda ad un identico numero di prodotti originali non venduti, il danno patrimoniale risarcibile può essere individuato tenendo quantomeno conto degli utili realizzati.
Ne consegue che l’affermazione della corte del merito, secondo cui, in tal caso, il danno non va provato, costituisce un argomento ad abundantiam, irrilevante nell’economia della decisione ed avverso il quale il motivo si palesa dunque inammissibile.
La doglianza relativa alla quantificazione del danno sulla base di un esame solo limitato di talune delle opere è, d’altro canto, inammissibile per difetto di autosufficienza, non risultando prima proposta, nè il luogo ed il tempo della pregressa deduzione; onde, per lo stesso motivo, neppure può integrare la fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sotto il profilo del fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti.
Infine, la deduzione concernente il ridotto valore delle opere plagiarie, rispetto a quello ingente degli originali, non rileva ai fini della quantificazione del danno, che appunto dal prezzo di vendita delle prime, e non delle seconde, ha tratto fondamento e che non vale ad escludere il pregiudizio.
6. – Il ricorso incidentale condizionato resta assorbito.
7. – Le spese seguono la soccombenza. Va emessa altresì la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente, liquidate in Euro 10.200,00 complessivi, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie al 15% ed agli accessori, come per legge.
Dichiara che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 14 luglio 2017.
Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2018
(Ph. ARTRIBUNE.COM)