“Antonio Boatto. Un pittore che fa pensare” è il titolo della relazione tenuta da Gianluca Liut in occasione dell’evento commemorativo dell’artista Antonio Boatto, scomparso il 15.08.2015, svoltosi il 20.04.2016 a Portogruaro (VE) presso la Sala del Caminetto.
“Buon pomeriggio a voi tutti.
Rinnovo all’amico prof. Alessio Alessandrini il mio ringraziamento per avermi invitato a questa giornata in ricordo dell’amico Antonio Boatto.
Di Antonio Boatto ho amato la pittura sin da giovane, quando, adolescente, nel salone di ricevimento di casa, mi fermavo, per interminabili minuti, a contemplare le tempere e gli acrilici a firma Boatto, che mio padre, negli anni, tela dopo tela, aveva raccolto.
È iniziata lì la mia passione per la pittura. Dall’esperienza chiarista di Antonio Boatto. Dalle opere dell’esperienza simbolica, dalle stoffe degli anni Ottanta.
Quei colori, così intensi eppure stesi con mano tanto delicata, quelle ombreggiature sui panneggi che coprivano corpi di donna senza testa, quei paesaggi senza presenze umane, quei cipressi e quei tronchi di colonna lungo vie solitarie e soleggiate mi incantavano. Un incanto che si è alimentato, negli anni, andando per chiese a conoscere le opere pittoriche religiose di Boatto.
Le opere pubbliche ci parlano dell’intimità sentimentale e filosofica di Antonio Boatto al pari delle opere private.
Mi sono sempre chiesto —e continuo a farlo ancora oggi, quando dedico qualche minuto del mio tempo a contemplare una delle sue creazioni della mia collezione— quali emozioni e quali riflessioni si insinuassero nell’animo e nella mente di Antonio mentre, pennello in mano, donava alla tela il suo essere se stesso.
La risposta l’ho ricercata nei suoi scritti. Nelle poesie di Sfinitezza del 2006, nelle riflessioni di Diario Metafisico di due anni dopo, nelle microstorie di Parvula del 2009.
Antonio Boatto è stato definito da Guido Perocco un pittore che pensa. Io prediligo, a questa, una formulazione diversa: un pittore che fa pensare. Che fa pensare alla condizione umana, alla precarietà del nostro vivere quotidiano, all’insaziabilità del nostro domandarci il senso dell’essere piuttosto che dell’esistere.
Scrive poeticamente Boatto in Sfinitezza:
L’ambiguità delle cose
è ciò che in esse
si nasconde: solo
se ti collochi
aldilà del tempo hai l’argomento
per giustificare i giorni
che sfilano via
come rotolo di carta.
Trovare il bandolo
della matassa
per dare un senso
all’azione dell’istante
è la grande impresa;
ma in te non hai l’uomo
sognato né argomenti
validi in tua difesa.
Argomenti validi a difesa di un senso all’azione dell’istante. Per me che sono avvocato sono parole che leggo, ogni volta, con ammirato sgomento. Argomenti validi a difesa… A difesa di un diritto, nel processo come nella vita. Di un diritto di libertà. Di quella libertà che Antonio Boatto ha vissuto intensamente quale motore immobile del proprio essere uomo prima che artista.
Scrive Boatto in Diario Metafisico:
Solo da liberi ci si può liberare.
L’enigmaticità di queste parole mi ha a tal punto ammaliato che, insieme ad Antonio, abbiamo deciso, mia moglie Ilaria ed io, di farne il simbolo letterario del nostro nuovo Studio professionale per l’anno 2009, quando abbiamo scelto Antonio Boatto per la realizzazione del nostro calendario di Studio, in cui abbiamo scelto di pubblicare alcune sue opere pittoriche e poetiche. Calendario di cui, insieme a mia moglie Ilaria, mi fa piacere fare dono all’Università della Terza Età che oggi ci ospita, a memoria di Antonio Boatto.
Solo da liberi ci si può liberare…. Più volte ho chiesto ad Antonio di volermi chiarire il senso di mistero racchiuso in queste parole. Le nostre amabilissime conversazioni si prolungavano per ore. Dalla porta del Suo Studio uscivo, ogni volta, meno sicuro delle mie certezze esistenziali. Ma con animo leggero. Di una leggerezza che oggi ritrovo ammirando i suoi quadri, leggendo le sue poesie, riflettendo sui suoi scritti filosofici.
Il senso dell’anelito di libertà che animava Boatto lo leggiamo in Sfinitezza, quando Antonio scrive:
Seduto ai bordi
dell’universo
respiro luminose
arie di libertà.
Boatto invita tutti noi, l’umanità di cui interpreta l’attanagliante inquietudine del vivere, a respirare la libertà: è un invito all’azione, non a subire il divenire del quotidiano. È un invito a essere capaci di sognare:
All’orizzonte
non finisce il mare
ma le diottrie dei tuoi occhi.
Oltre è sognare.
Boatto ci invita ad andare oltre. Oltre ciò che vediamo e che sentiamo. Oltre la limitatezza del nostro affaccendarci nell’insensatezza del sopravvivere. È un invito alla vita, il suo. A dare un senso alla vita. La sua è poesia filosofica. La poesia di Boatto è filosofia. Il suo pensiero è animato costantemente da due vocazioni: una all’individuazione di una universalità, e una alla prescrizione di una saggezza.
Il pensiero di Antonio Boatto è permeato della genialità delle riflessioni dei filosofi greci presocratici del sesto secolo A.C.
Aristotele, infatti, nella Fisica, già considerò che per Anassimandro «dall’Uno che li contiene, si staccano i contrari».
Di Anassimandro è pervenuto un frammento, tramandato dal filosofo e matematico bizantino del VI sec. Simplicio.
« Anassimandro….ha detto…. che principio degli esseri è l’infinito (ápeiron)….da dove infatti gli esseri hanno l’origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità”.
Origine e distruzione. Inizio e fine. Vita e morte. Le dicotomie dell’essere umano. Opposte, eppure complementari.
Antonio Boatto e le dicotomie complementari. Se dovessi dare un titolo a queste mie riflessioni sull’artista e sull’uomo Antonio Boatto sarebbe questa la mia scelta.
Il termine dicotomia deriva dal greco διχοτομία , dichotomìa : composto da δίχα (dìcha, in due parti) e τέμνω (témno, divido). La dicotomia è, dunque, la divisione di un’entità in due parti (che costituiscono una diade) che non necessariamente si escludono dualisticamente a vicenda, ma che possono essere complementari.
Una complementarietà che respiriamo nelle pagine degli scritti di Boatto. Nelle “non solo parole” di cui è fatta la sua filosofia.
Ogni filosofia
fatta di sole parole
se ne va presto via
come fa la neve al sole.
La vita di Boatto è stata ricerca, di sé e dell’uomo. Una partenza, senza un ritorno.
Non c’è ritorno
per chi non parte
o il cerchio labile
richiude;:
di pietra dura
è la mia struttura
di ente immobile
e disadorno.
Una pietra dura che Boatto ha inciso con martello e scalpello, in senso materiale, nelle sue opere scultoree, con penna e calamaio, in senso antropologico, nei suoi scritti poetici e filosofici.
La tela su cui dipingo
il medesimo quadro
da sempre iniziato e mai
compiuto in formazione
perenne e d’impossibile
giudizio aspetta invano;
come l’informe pietra
dura restia pesante
che vogliosa ma impedita
di svincolarsi dal magma
giace in utopica attesa.
Echeggiano sentimenti michelangioleschi. Del toscano Buonarroti, certo, ma anche del lombardo Merisi da Caravaggio, il pittore che insieme a Boatto costituisce la sintesi perfetta della mia passione per quella che considero la più alta delle arti.
Ricerca ossessiva della perfezione, da un lato, sofferenza straniante per l’umana condizione dall’altro. In un anelito sempre più vorace di libertà dai dogmi e dalle false illusioni.
Se condannato
al libero arbitrio
io nel pieno
delle mie facoltà
fisiche e mentali
rifiuto la libertà
col veleno.
Così Antonio Boatto, in Sfinitezza.
Un rifiuto della (non) libertà.
La libertà. Per Antonio Boatto, un’utopia.
Tra le quarantatré microstorie di Parvula ve n’è una che mi è particolarmente cara. È la numero sedici. Boatto scrive di un giovane, avvenente, che di professione fa l’avvocato. Quando l’ho letta mi sono rivisto nelle parole di Antonio, nel mio andare a trovarlo senza preavviso nel suo studio, nel mio implorare la cessione di un suo quadro, nel mio dialogare con lui di verità assenti e di assenze incombenti. Quando, al telefono, il volume tra le dita, gli chiesi a chi si fosse ispirato nella stesura del racconto, la sua risposta fu laconica: A te.
Ve ne vorrei leggere alcuni passi.
[…]
Sempre, le dicotomie complementari. Quelle dicotomie che hanno accompagnato Antonio Boatto per una vita, nella sua geniale inquietudine di uomo e artista.
Il filosofo indiano U.G. Krishnamurti, scomparso nel 2007, nel suo L’inganno dell’illuminazione, scrive che “Ciò che è necessario per l’uomo è liberare se stesso dall’intero passato dell’umanità, e non soltanto dal proprio passato individuale. L’uomo diventa davvero uomo soltanto quando si libera dal fardello del passato, dal retaggio dell’uomo nella sua totalità […]. Soltanto allora egli diventa un individuo”.
In altri termini, e in via di sintesi, diventa individuo cercando la propria giustificazione.
Scrive Antonio Boatto, nel suo Diario Metafisico, che
Ognuno cerca invano
la giustificazione di sé;
eppure io ci provo.
Anche al cospetto della morte, Antonio ha affermato la sua identità di essere pensante in quanto libero. Ironicamente, come ironico ed autoironico è stato il suo pensiero.
In una delle più struggenti poesie di Sfinitezza, Boatto scrive:
Io non cedo.
Non mi piego
come frasca:
dei problemi
me ne frego
Mani in tasca
io non prego.
Da sto mondo
mi congedo
ed in alto
spicco il salto
giro a tondo
sopra il suolo;
meglio vedo
stando in volo.
Un artista
io mi fingo
e a colori
gialli e rossi
valli e dossi
ridipingo.
Quassù canto.
Ed il vento
non mi porta
degli armenti
i muggiti;
degli umani
i lamenti
e le liti
misti al pianto
più non sento.
Qualche anno fa, in risposta ad una affettuosa missiva di Antonio, gli scrivevo: “Ti considero —come Ti ho sempre considerato da quando tra noi v’è più che stima e affetto, fraterna amicizia— persona illuminata e illuminante i passi di chi vuol tentar di intendere la tua profonda essenza”.
Sono convinto che il tentativo di comprendere la profonda essenza di Antonio Boatto impegnerà quanti di noi ne hanno amato e amano la straordinaria personalità di uomo e la poliedrica genialità di artista per molti anni ancora.
Vi ringrazio per l’attenzione.
Gianluca Liut
Portogruaro, Villa Comunale, 20 aprile 2016